La città delle dame by Christine de Pizan

autore:Christine de Pizan [de Pizan, Christine]
La lingua: ita
Format: epub
editore: Carocci
pubblicato: 2021-10-30T22:00:00+00:00

XVII. Storia di Argia, figlia del re Adrasto.

«Con l’esempio del grande amore che Argia, figlia di Adrasto, re d’Argo, provò per il marito Polinice, chi ose­rebbe dire che le donne provano poco amore per i loro spo­si? Polinice, lo sposo di Argia, era in lotta con il fratello Eteocle per il regno di Tebe, che gli spettava, secondo cer­ti accordi stabiliti tra loro. Poiché Eteocle volle tutto il re­gno per sé, Polinice gli dichiarò guerra, e il re Adrasto gli andò in aiuto con tutta la sua armata. Ma la Fortuna si vol­se contro Polinice, e lui e il fratello si uccisero a vicenda in battaglia: dell’esercito sopravvissero solo il re Adrasto e tre­cento dei suoi soldati. Quando Argia seppe che suo mari­to era morto in battaglia, partì con le altre dame di Argo, abbandonando la residenza reale. E di ciò che ella fece, Boccaccio racconta: “La nobile Argia sentì dire che il cor­po di Polinice giaceva insepolto tra i cadaveri del popolo comune che era stato ucciso là, e subito abbandonò gli abi­ti e gli ornamenti da regina e la comodità dei suoi appartamenti. L’amore le fece vincere ogni debolezza e fragilità femminili; dopo molti giorni di viaggio giunse al luogo del­la battaglia, senza farsi spaventare dalle imboscate del ne­mico né dalla lunghezza del viaggio, dalle asperità del ter­reno o dalla calura. Una volta giunta al campo di battaglia, non si lasciò spaventare dagli animali selvaggi o dai gran­di uccelli attirati dai cadaveri, né dagli spiriti maligni che, secondo le opinioni dei folli, volteggiano intorno ai corpi dei defunti. Cosa ancora più straordinaria, ci racconta Boc­caccio, non temeva l’editto di Creonte che stabiliva il di­vieto di avvicinarsi o seppellire i corpi, chiunque essi fos­sero, sotto pena di morte. Ma Argia non era certo andata là per obbedire a quell’ordine; giunse quando già calava la notte, e neanche il grande fetore sprigionato dai cadaveri la fece desistere e, spinta dall’amore e dalla tristezza, prese a tastare i corpi, prima gli uni, poi gli altri, cercando il suo amato, qua e là. E non smise finché il chiarore della sua torcia le fece ritrovare quello che lei cercava, il suo amatis­simo marito. Oh!, scrive Boccaccio, meraviglioso amore, ardente desiderio e affetto femminile! Il volto del marito era per metà rosicchiato dalla ruggine dell’armatura e in decomposizione; tutto insanguinato, pieno di polvere e sporco, pallido e livido, era praticamente irriconoscibile, ma non sfuggì a quella donna, che lo amava appassionata­mente. Né l’odore pestilenziale del corpo, né il volto orri­bile le impedirono di baciarlo e stringerlo a sé; e l’editto di Creonte non la fece trattenere dal gridare: “Ahimè, ahimè, ho trovato il mio amato!” e piangere tutte le sue lacrime. Con tanti baci sulla bocca cercava in lui un soffio di vita, e le sue lacrime gli lavavano il corpo già in decomposizio­ne, mentre di continuo lo chiamava tra grida, gemiti e pianti. Poi, per rendergli l’ultimo, pietoso omaggio, fece cremare il suo corpo e ne raccolse le ceneri in un’anfora d’oro.

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